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Rohingya in Myanmar. Il genocidio sullo sfondo

Un campo profughi dei Rohingya in Bangladesh. Foto: EU/ECHO/Pierre Prakash via Flickr. Un campo profughi dei Rohingya in Bangladesh. Foto: EU/ECHO/Pierre Prakash via Flickr.

Le notizie sul colpo di stato militare in Myanmar e la persecuzione legale di Aung San Suu Kyi hanno fatto passare in secondo piano la sofferenza dei Rohingya. Ma il genocidio contro questo gruppo etnico continua senza sosta, con milioni di sfollati che soffrono nei campi profughi, come ha riferito oggi l’Associazione per i popoli minacciati (APM). I media occidentali hanno semplicemente dimenticato il genocidio contro i Rohingya. I crimini contro questo gruppo etnico sono iniziati già sotto l’ultima dittatura militare. Quando è arrivata ai vertici del potere da quasi capo di stato, Aung San Suu Kyi ha giustificato e difeso il genocidio. Ora le accuse inventate contro di lei oscurano i crimini molto più grandi contro i Rohingya.

Quasi due anni fa, la Corte internazionale di giustizia (CIG) aveva ordinato al Myanmar di “prendere tutte le misure in suo potere per prevenire tutti gli atti” cui si riferisce la Convenzione sul genocidio. Questi includono “l’uccisione di membri del gruppo” e “l’imposizione intenzionale al gruppo di condizioni di vita che possono portare alla sua distruzione fisica in tutto o in parte”. Il Myanmar deve fare rapporto alla corte ogni sei mesi. Secondo la Burmese Rohingya Organisation UK (BROUK), la giunta militare resiste all’attuazione delle misure ordinate. Anche i gruppi etnici Karen, Chin e Shan stanno soffrendo sotto il dominio brutale dei militari. Dopo il colpo di stato militare del febbraio 2021, circa 1.500 manifestanti pacifici sono stati assassinati. Più di 10.000 persone sono state arrestate.

I generali impediscono qualsiasi trasparenza e controllo pubblico. Questo mina l’efficacia delle misure ordinate dalla CIG. I militari si sentono apparentemente liberi di continuare a commettere atti di genocidio contro i Rohingya e atrocità contro il resto della popolazione. La persecuzione legale di un singolo leader non dovrebbe oscurare la nostra visione di questa triste realtà. L’ONU, gli stati ASEAN e l’intera comunità internazionale devono fare di più: sanzioni contro i generali e un embargo sulle armi sarebbero il minimo. I Rohingya e altri gruppi etnici minacciati avevano bisogno di qualcosa più che semplici parole, servivano cioè azioni concrete. I governi del Gambia e dell’Argentina hanno mostrato la strada: il Gambia con la denuncia davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia e l’Argentina con la storica decisione di perseguire i crimini gravi attraverso il principio della “giurisdizione universale”, anche se non sono stati commessi sul loro territorio.