In questi giorni avete annunciato di aver pagato il debito accumulato da EGIN, che dopo un accordo nel 2019 con l’Istituto della Previdenza Sociale, era stato fissato in tre milioni di euro. Quali sono gli insegnamenti che avete tratto da questa esperienza giuridico-politica?
Ogni paese, nazione o stato ha le sue virtù e i suoi difetti. I poteri spagnoli sono perseveranti nella vendetta e anche imbroglioni. Se non possono arrivarci per una strada, ne proveranno un’altra. Così hanno adottato un sotterfugio legale per chiudere un quotidiano, dopo aver chiuso EGIN in modo illegale – così ha sentenziato il Tribunal Supremo. Non lo hanno ottenuto ma ci hanno danneggiati, perché la punizione di tre milioni di euro è grande, ancor più in una situazione di crisi. Qui, nel Paese basco la solidarietà testarda appare sempre. Dopo 15 anni in una situazione di eccezionalità, quando arriva la sentenza e il saccheggio, arrivano 10 mila nuovi abbonamenti al quotidiano, i migliori artisti del paese donano loro opere, la gente acquista il quotidiano più caro del mondo e si porta a casa una di queste lamine con la prima pagina del quotidiano, 30 gruppi musicali organizzano un festival … e con questo fa sì che non venga chiuso un mezzo d’informazione. E’ un esercizio di resistenza, inventiva e impegno collettivo molto importante. Nessuno avrebbe pensato che le cose sarebbero andate così. E’ uno scenario costruito a forza di immaginazione e solidarietà.
Come avete potuto coniugare il pagamento di un debito di queste dimensioni con il mantenimento di un progetto editoriale come il vostro che afferma di voler dare voce a un determinato settore della società basca e stare al passo con le necessità tecnologiche richieste dall’attuale sistema dei mass media? Avete avuto appoggio anche fuori dal Paese basco?
L’appoggio è stato soprattutto comunitario, radicato in Euskal Herria, o con una conoscenza e legami molto forti con il paese. Però dobbiamo ringraziare in modo particolare questa gente che, senza ricevere in cambio un servizio diretto, pur non essendo cittadina basca, ha appoggiato la sopravvivenza e lo sviluppo di GARA. Persone della Catalunya, Galizia e del resto dello Stato spagnolo e francese, di Italia, Germania, Irlanda … tutti hanno apportato qualche tipo di aiuto, dall’economico, all’informazione sull’ingiustizia che si stava commettendo contro un mezzo d’informazione, nel cuore del Europa, nel 2020. Per l’equipe che fa il giornale questo appoggio internazionale è stato molto importante e di questo siamo molto grati. Quando demmo la notizia del saccheggio, dicemmo anche che l’idea era mantenere gli investimenti. Già avevamo digitalizzato e sviluppato il modello delle sottoscrizioni, però in seguito è arrivata una nuova radio in euskara, un nuovo disegno per il portale, un cambio radicale nell’organizzazione e produzione, la scommessa per l’audiovisivo e il trans media …. L’idea non era solo pagare, bensì poter svilupparci per continuare nel nostro lavoro, per cambiare in meglio il paese e contribuire a migliorare il mondo.
Nel tuo editoriale scrivi che i mezzi d’informazione svolgono “un servizio pubblico” e che se GARA chiudesse “non solo scomparirebbe ciò che scriviamo nelle nostre pagine, ma che si direbbero cose che oggi non si possono sostenere”. Che significa?
In un paese come il nostro, castigato da una dittatura durata 40 anni e una Transizione che non ruppe con i poteri di quella dittatura – per esempio con la monarchia – dove la destra ha un grande potere economico e politico, non solo è importante ciò che diciamo, ma obblighiamo il resto dei giornali a dire o a non dire. Media come il nostro sono un antidoto contro le menzogne, le fake-news e le campagne di relazioni pubbliche mascherate da giornalismo.
Se nelle edicole e in internet c’è un mezzo d’informazione che in modo esplicito difende il femminismo, i diritti dei lavoratori, lo sviluppo della cultura e della lingua basca, le politiche pubbliche, la lotta contro l’emergenza climatica o un altro tipo di gestione della pandemia, il resto dei mass media deve modulare il suo discorso contro sindacati, contro le femministe, in difesa delle grandi corporazioni e le banche, o contrario alle evidenze scientifiche in materia di ecologia o epidemiologia.
Visto il conflitto violento che, fino a pochi anni fa, la società basca e spagnola ha vissuto e le cui conseguenze sono tuttavia presenti, ciò che appare con maggiore o minore intensità nella dialettica politica è la questione della memoria storica. C’è chi la limita temporalmente, dalla prima azione di ETA; chi la fa solo “dell’altro”; chi propone una memoria basata in un processo di “giustizia transizionale”, etc. GARA ha partecipato attivamente a questo dibattito. Che funzione hanno avuto e hanno i mezzi d’informazione su questo tema?
Le persone che adesso hanno 18 anni ne avevano 8 quando ETA decise di abbandonare la lotta armata. Non hanno conosciuto, attentati, però nemmeno hanno troppa coscienza di cosa ha significato la tortura, o il fatto che in questo paese sono state arrestate 40 mila persone attraverso la legge antiterrorista, delle quali 10 mila sono state in carcere. Sono numeri bestiali in un paese piccolo come il nostro. A volte, dal lato unionista, si dice che dei prigionieri politici – ancora ce ne sono 211 in prigione – non importa a nessuno se non alla sinistra indipendentista. La mia risposta è che anche delle vittime di ETA non importa a nessuno se non ai loro famigliari, il che non rende in alcun modo migliore la società. Dovremmo essere capaci di guardare il passato e di riflettere su cosa abbiamo fatto ognuno di noi, che responsabilità abbiamo nel conflitto, il danno subito dalle altre persone, sulle differenti violazioni dei diritti umani che sono avvenute da ambedue le parti.
Però c’è una parte dei dirigenti spagnoli e della loro stampa che è negazionista, che nega l’esistenza di un conflitto politico e, di conseguenza, dell’esistenza di vittime dall’altra parte. Questo li porta a scivolare verso una crudeltà infame. Nel caso del giornalismo, per esempio, è chiaro il caso della tortura. GARA e prima “Egin”, hanno sempre dato notizia di ognuno degli attentati di ETA. Eppure, i mezzi affini al governo basco e spagnolo avevano negato l’esistenza di un sistema di torture contro i detenuti baschi. Hanno riprodotto la versione della polizia, anche quando ci sono stati morti in commissariato. Adesso, quando dossier ufficiali riportano circa 5000 casi di tortura certificati, questa emeroteca è un tremendo dito accusatorio. Dovrebbero avere l’onestà di ammettere l’errore e non fare dell’opportunismo che non contribuisce assolutamente alla convivenza e allo sviluppo del paese e alle nuove generazioni di basche e baschi.
La pandemia del virus Covid-19 ha provocato oltre a centinaia di migliaia di morti, un impatto epocale a livello ecologico, economico, sociale e culturale. Le quarantene, le limitazioni alle relazioni, hanno evidenziato alcune psicologie di massa latenti, una messa in discussione del modello di vita della società più ricche, il ruolo della scienza, una marcata incertezza verso il futuro. Quale è stata la vostra linea editoriale, che informazione avete privilegiato in questo anno pandemico e più in generale su questo approccio come vedi gli altri mezzi d’informazione?
Abbiamo cercato di dare informazione veritiera, che se è cosa non facile per la comunità scientifica, immaginiamoci per le giornaliste e i giornalisti. Abbiamo cercato di dare una visione critica della politiche pubbliche, però essendo coscienti che la situazione è totalmente eccezionale. E abbiamo sperimentato come fornire un servizio pubblico e facilitare la vita della gente, che si era trovata sconcertata, offrendo dai corsi di zumba fino ad un consultorio quotidiano con uno psicologo.
Credo che nel parlare di mezzi d’informazione e pandemia dobbiamo separare mezzi e canali. Credo che in generale, la stampa e la radio abbiano fatto un gran lavoro. Ognuno secondo la propria linea editoriale, in generale, credo ci sia stato rigore informativo e informazione veritiera. Ho molti dubbi con le televisioni. Hanno molta influenza nei settori più colpiti dal virus, specialmente la gente anziana, e in molti casi hanno generato un clima di paura terribile. Le grandi piattaforme di internet hanno accresciuto il loro potere, fenomeno in atto da tempo ed è una tendenza molto pericolosa, a mio modo di vedere.
In generale, credo che nel dibattito pubblico ci siano state diverse fasi. Le grandi lotte storiche tra valori antagonisti si sono riprodotte, con risvolti diversi in momenti diversi. Individualismo e comunitarismo, paura e serenità, assistenza, cura e egoismo. La situazione è estrema e questi valori si sono espressi in termini estremi. I mezzi d’informazione hanno riflesso questa situazione, a volte per raccontarla altre per promuoverla. Spesso si sono focalizzate responsabilità individuali per evitare di valutare responsabilità politiche di chi ha preso decisioni erronee, in particolare a partire dalla seconda ondata, perché nella prima fase tutti ci rendiamo conto che non era facile.
La parola “sovranismo” è molto di moda in questi ultimi anni a causa della nascita di movimenti e partiti politici egocentrici sul piano economico, culturale e sociale che quasi sempre hanno posizioni xenofobe, neoliberiste nell’ambito economico interno ai loro propri stati, contrari ai diritti umani di genere e delle minoranze. Eppure nella seconda metà del ‘900, il concetto di “sovranismo” era piuttosto legato a un movimento progressista e di liberazione nazionale. Era legato, in definitiva, anche a una idea di “autodeterminazione” integrale dalla persona alla società. E così è stato storicamente in Euskal Herria. GARA come tratta questo tema?
Tutto il mondo preferisce essere sovrano, autonomo e indipendente all’essere subordinato e dipendente. Da Cuba fino alla Norvegia questo è così e non solo per gli stati ma anche per ogni tipo di entità, siano esse imprese che club sportivi. Lo stesso si può dire per le famiglie o le persone.
Nel caso di un paese piccolo, diviso e castigato come il nostro, questa volontà di essere liberi e indipendenti ha molto a che vedere con la storia di negazione da parte degli stati spagnolo e francese come con le ambizioni che ha di sé la nostra società. Cioè, la questione può essere definita come una risposta a come ci trattano le autorità spagnole; come cittadini di seconda classe, membri di una cultura “minore”, come gente incapace di governarsi. E’ logico che noi non ci vediamo così, ci vediamo come uguali e vogliamo un trattamento uguale. Votiamo, e che esca ciò che deve uscire, che decida la gente. Prima dicevano che il problema era la violenza, però adesso non c’è violenza da parte nostra e, in Catalunya si è visto chiaramente, Madrid non è disposta a lasciare votare la gente su questo tema.
Un altro aspetto della questione si riferisce alle nostre lotte collettive, la nostra cultura democratica, i nostri modelli di relazione sociale, che ci hanno portati ad avere una visione e progetti che sono divergenti da quelli delle forze maggioritarie di questi grandi stati. Crediamo che si possano fare le cose in altro modo, sulla base di altri principi, valori e dibattiti. In un’altra dimensione. Crediamo, per esempio, nella libertà di stampa e nella pluralità e crediamo in questi valori in modo militante, come società. Per questo, per esempio, lo Stato spagnolo ha cercato di chiudere un mezzo d’informazione e la società basca lo ha salvato. Non crediamo nella monarchia e vogliamo poter decidere su di essa. Crediamo in altre forme di relazioni lavorative come il cooperativismo o altri modelli d’impresa. Pensiamo che le lingue siano un tesoro e che il nostro popolo ha l’immensa responsabilità di curare e sviluppare l’euskara e la cultura basca.
Credo che, nel caso basco, ciò che definisce la differenza nella lotta collettiva per l’autodeterminazione e l’indipendenza è uno spirito emancipatore che lega questa lotta con altre lotte per la liberazione, dalla liberazione sessuale fino all’internazionalismo. Questo obbliga a un dibattito costante e per questo credo che è così importante la stampa in questo paese.